Giovanna Bosco. Dentro i luoghi comuni e altre manifestazioni dell’inconscio sociale. Migrazioni al femminile.

Non per quello che hai fatto, ma per come io ti vedo –  2° parte: 

Giovanna Bosco

di Giovanna Bosco

con contributi dell’Associazione Mamme a Scuola e di Teresa Mutalipassi

Migrazioni al Femminile

Nel precedente numero della Rivista ho proposto qualche riflessione sulle migrazioni partendo dalle domande: da cosa nascono l’indifferenza o l’aperta ostilità verso coloro che hanno una diversa origine geografica, etnica, un diverso colore della pelle? Cosa c’è all’origine dei luoghi comuni e pregiudizi su coloro che vengono percepiti come diversi?

La riflessione prosegue  in questo numero, concentrando l’attenzione in particolare sui volti femminili dell’immigrazione.  Oltre a far emergere le voci e i punti di vista di donne immigrate, donne italiane, mediatrici culturali, verranno riportate alcune esperienze realizzate nell’ambito del volontariato sociale e dei servizi sociali che si occupano di immigrazione e di integrazione. 

Nel primo caso attraverso un’intervista all’Associazione Mammeascuola, che già da diversi anni opera a favore dell’integrazione nella periferia Nord di Milano, e che di recente ha avuto dal Comune l’assegnazione di una sede in un edificio confiscato alla Mafia; nel secondo caso dando la parola  a Teresa Mutalipassi, che racconta un’esperienza realizzata con donne e mamme immigrate nell’ambito del Settore Servizi sociali del Comune di Padova. 

Parlare genericamente di Donne Immigrate  o Donne migranti o richiedenti asilo è a volte inevitabile per definire sinteticamente un tema di discussione o le destinatarie di un’iniziativa.  C’è tuttavia il rischio, usando questi termini, di rafforzare la tendenza a raggruppare artificialmente le Donne immigrate o migranti in un’unica categoria, annullando le differenze tra di loro e allo stesso tempo ponendo  un confine ben preciso tra le italiane e le “altre”. In realtà quanto sono diverse tra loro queste “altre”, a seconda della cultura da cui provengono, dei motivi che le hanno portate a lasciare il loro luogo d’origine, dei percorsi fatti per arrivare in Europa, delle aspettative e progetti di vita, dell’età, dei rapporti familiari, e così via.  La stessa parola ‘Donna’ ha un significato diverso per quella badante ucraina, arrivata da sola in Italia, che mantiene con il suo lavoro il marito e i figli rimasti al paese d’origine; oppure per quella donna arrivata dal Magreb o dal Pakistan con i figli per ricongiungersi con il marito già da tempo immigrato; o per la laureata siriana che è fuggita da guerra e distruzione; o ancora  per colei che è caduta nella rete brutale della tratta, partendo da un villaggio dell’Africa Subsahariana, dopo essersi affidata a uomini senza scrupoli che l’anno illusa di portarla dove avrebbe potuto realizzare le sue aspirazioni ad una vita migliore

E’ la difficoltà a entrare in relazione con l’Altro ed a riconoscere il valore della diversità che impedisce di vedere i tanti percorsi umani, le tante storie di vita, le differenti culture che concorrono a determinare il senso di identità di ciascuna.  Al massimo si individua all’interno della categoria ‘donne immigrate’ una sottocategoria, come ad esempio quella delle donne musulmane che portano il velo islamico, per molti motivo di violente battaglie ideologiche. Perché la vista di questo capo d’abbigliamento suscita disagio in tante donne italiane?  

Ripensando in generale al pregiudizi verso i “diversi”,  c’è da dire che coloro che vorrebbero blindare i confini per tener fuori migranti e stranieri oppure dicono  “è una vergogna” se passano vicino ad un campo rom, hanno solitamente vissuti e reazioni ben diverse se incontrano in treno dei giocatori di pallacanestro neri, alti e atletici, o un uomo d’affari africano che indossa  abiti eleganti e costosi. (Diverso è il caso dei cori razzisti negli stadi, dove determinante è l’effetto “branco”). E allora forse il problema non sta solamente nel fatto che si sente la propria identità culturale minacciata da chi ha un diverso colore della pelle o diversi modi di vivere. Non è solo del nero o dell’arabo o del rom che si ha paura.  Sotto sotto, si ha paura dei diseredati, dei poveri, di coloro che hanno dovuto abbandonare tutto (casa, affetti, radici) per salvare la pelle o per cercare una possibilità di vita dignitosa. Si ha paura degli ‘ultimi’ perché si teme che qualche rovescio del destino ci faccia diventare noi stessi poveri, diseredati, ‘ultimi’. Quando li incontriamo per strada, al supermercato, in tram, la loro vista ci parla di umana fragilità.  Ed è la nostra fragilità che essi ci rimandano. La ripulsa nei loro confronti nasce anche dalla difficoltà a riconoscere che pure noi possiamo essere vulnerabili.


Analogamente il velo arabo ci rimanda ad un tempo, in fondo non troppo lontano, in cui le donne non avevano voce in capitolo neppure nel nostro Paese, erano escluse dal voto e da molte professioni, non potevano essere indipendenti economicamente, poiché passavano dalla tutela del padre a quella del marito, e così via. Anche le donne italiane un tempo, soprattutto in certe regioni, coprivano i capelli con un foulard, solitamente nero. Per la verità ci sono tanti tipi di velo nel mondo arabo: dallo hijab, che copre i capelli ma lascia il viso scoperto (e che non è poi dissimile dalle sciarpe messe sul capo e annodate elegantemente intorno al collo da molte attrici in alcuni film degli anni ’60) al niqab, che lascia scoperti solo gli occhi, al burka, che rende la donna totalmente invisibile.

Circa trent’anni fa in una libreria di Casablanca scoprii un libro della sociologa  marocchina Fatima Merissi, (Sex, idéologie, Islam), che fu per me illuminante per il senso che l’autrice attribuiva al velo, quando questo nasconde, parzialmente o totalmente, il viso, come nel caso del niqab o del burka: poiché il posto della donna è nella casa, se per qualche motivo essa si trova a dover uscire e a camminare per strada, il velo che indossa e che la rende invisibile, o quasi invisibile, equivale ad annullare la sua presenza nello spazio pubblico.  Come a dire: “qui non c’è nessuna donna, il suo posto è nella famiglia e nella casa, mentre lo spazio pubblico resta riservato agli uomini”.  

In tempi più recenti, in alcuni gruppi esperienziali tenuti nell’ambito dell’Associazione E-spèira, che avevano per tema i vissuti suscitati dal rapporto con la Diversità, anche donne italiane colte e non oscurate dalla xenofobia confidavano a volte di provare paura se accadeva loro di incontrare per strada qualche donna coperta dal burka, accompagnata dal marito in abiti occidentali. E’ possibile che il burka evochi  il timore di poter scivolare all’indietro ad uno stato di sottomissione della donna. La paura può avere anche a che fare anche con un vissuto di dipendenza, non completamente risolto, della donna rispetto all’universo maschile. In genere quanto più la donna ha potuto sviluppare il senso del proprio valore come essere umano e si sente libera di esprimere i propri punti di vista, avere relazioni sociali, essere attiva socialmente (senza dipendere per la propria realizzazione dalla protezione o benevolenza di un uomo), tanto più potrà trasformare quella paura in comprensione empatica. 

In  alcuni paesi europei si è arrivati a vietare per legge l’uso del niqab e del burka. Nel nostro Paese questo non è avvenuto, tuttavia non solo il velo parziale e integrale, ma anche lo stesso hijab (che copre solo i capelli e il collo) è molto osteggiato, e le donne che lo indossano hanno spesso difficoltà a trovare lavoro, anche se sono molto qualificate per quel posto. 

Solitamente si ritiene che le donne di religione musulmana o semplicemente arabofone siano obbligate dalla famiglia e dalla comunità a indossarlo. Ma se questa costrizione  può essere vera nel paese d’origine, per le donne di origine islamica che vivono oggi nei paesi europei, soprattutto se di seconda generazione, la questione è più complessa.  Tra le giovani alcune fanno di tutto, anche in contrasto con la famiglia, per adeguarsi il più possibile allo stile di vita e al modo di vestire delle coetanee italiane, mentre altre, non sentendosi sufficientemente accettate, nonostante i propri sforzi, in quanto ‘diverse’, rivendicano orgogliosamente la loro diversità culturale attraverso l’abbigliamento tradizionale.  Le più consapevoli tra loro sottolineano che, anziché parlare tanto di velo, bisognerebbe  sostenere la partecipazione attiva delle donne alla società e aiutarle a riconoscere gli stereotipi assorbiti crescendo nella loro comunità:  “Si cresce sentendosi dire continuamente che per vivere si ha bisogno di un uomo: ‘Non puoi andare in vacanza con le tue amiche… ci andrai con tuo marito quando sarai sposata’. Così si  pensa al matrimonio come al punto d’inizio per poter vivere davvero”, dice  Amira.   “Ci sentiamo ripetere: ‘perché studi così tanto? Perché ti dai da fare per cercare un lavoro?  Non farti problemi da uomo… sono cose a cui dovrà pensare tuo marito’. Si cresce pensando che solo con un uomo accanto abbiamo valore, che sarà lui ad affrontare qualsiasi problema anche per noi…”.  

Quanto più la società stigmatizza la diversità ed è incapace di gettare ponti tra le differenti culture,   tanto più per le donne immigrate è difficile realizzare il compito psicologico di integrare dentro di sè in modo personale le diverse appartenenze e tradizioni culturali,  quella originaria e quella del paese in cui si trovano oggi a vivere. Per aiutare le donne cresciute in un contesto paternalista e maschilista, è necessario accostarsi a loro con empatia. E questo è possibile solo se si riconosce come anche noi possiamo aver interiorizzato, insieme ad altre voci che ci sostengono nella nostra crescita personale, voci che ci dicono che senza un uomo accanto non siamo  nulla. In fondo è lo stesso meccanismo che può portare anche donne italiane ad accettare rapporti basati sulla svalutazione e la violenza psicologica o fisica da parte del marito o compagno. 

Altri pregiudizi riguardano le donne immigrate in quanto “madri”.  In “Voci di famiglie immigrate” Antonio Marazzi segnala il rapporto conflittuale che talvolta si manifesta tra le famiglie immigrate ed i servizi pubblici,  soprattutto per quanto riguarda l’educazione dei figli. Così a volte “mentre dal punto di vista delle istituzioni si tratta di figli abbandonati a sé stessi”, dal punto di vista delle madri si parla di “figli giustamente responsabilizzati”.  E, basandosi su incontri di gruppo tenuti con varie mediatrici culturali, soprattutto di origine sudamericana, che avevano come “focus” il rapporto famiglie-servizi, riporta dei punti di vista interessanti. Dice una mediatrice culturale di origine brasiliana: “Io incontro molte discriminazioni con le famiglie latinoamericane…. Il luogo comune più evidente è ‘…i figli li fanno poi li abbandonano, li lasciano in mano a qualsiasi persona… Non è proprio così”.  E un’altra mediatrice di origine colombiana: “Le mamme sudamericane danno più responsabilità, pian piano sempre più responsabilità. La bambina di otto anni lava i piatti, inizia a fare da mangiare, a curare un po’… Non perché la mamma non lo fa, ma per farglielo fare un po’ . Il bambino inizia già a fare le cose che qui non fanno proprio i bambini… Qui i bambini proprio non fanno niente. Ho visto che qui le mamme gli portano lo zaino… (…) Noi responsabilizziamo il bambino a lavarsi da solo. Si cerca di dargli un po’ di libertà e  responsabilità. Noi il pensiero che abbiamo è di preparare il bambino al futuro. Perché il pensiero è: non sappiamo quanto tempo ha la mamma di vita, o quanto tempo ha il papà, non sappiamo cosa lo aspetta per il futuro”.

Anche una mediatrice cinese si unisce con analoghe considerazioni. E ancora una mediatrice di origine sudamericana: “Qui le normali difficoltà della vita vengono vissute come tragedie. Che agitazione! Ho visto dei genitori stressati, troppo ansiosi! Secondo me così i figli restano persone deboli… Sì, persone indebolite dal benessere.”  Ovviamente può esserci, in questo modo di rappresentare le cose, anche un aspetto difensivo, dovuto al timore di essere considerati inadeguati nell’educare i figli. Può darsi inoltre che queste donne immigrate abbiano una visione statica della società di origine, come se là nulla fosse cambiato dal momento in cui sono partite. In ogni caso diventa importante ricercare un punto di equilibrio, sia da punto di vista loro che dal punto di vista degli operatori dei servizi, degli insegnanti, e più in generale della comunità che li accoglie, tra responsabilizzazione e protezione dei figli. 

E’ inoltre importane, più in generale, che qualsiasi programma di integrazione  preveda dei dispositivi di gruppo che consentano di ripensare insieme luoghi comuni e stereotipi: quelli di chi proviene da altre culture e quelli della società che li riceve. Ma come questi principi, ideali, desideri si incontrano e scontrano con la realtà quando si cerca di metterli in pratica? Quali percorsi sono possibili? Cosa si scopre strada facendo? 

Ho intervistato a questo proposito la dott.ssa Alessandra Bonetti, che collabora con l’Associazione milanese  Mamme a Scuola  http://mammeascuola.it/homex-3/ 

Da dove provengono principalmente le donne con cui voi siete in contatto come Associazione?  

Mamme a Scuola è attiva in tre zone di Milano: nel municipio 7, che gravita intorno al quartiere San Siro; nel municipio 8, in zona Prealpi e Villapizzone e nel municipio 9, in zona Dergano. Sono tre zone della periferia nord della città con un’alta percentuale di residenti di origine straniera, di diverse provenienze nazionali e di diverse origini sociali e culturali. All’interno della nostra scuola ci sono donne arabofone, cinesi, cingalesi, bengalesi, indiane, senegalesi. Il gruppo più rappresentato è quello delle donne arabofone, che provengono in prevalenza da Egitto e Marocco.  Hanno un’età media di 36 anni, più della metà sono musulmane con bambini in età scolare e prescolare. Tutte, però, sono arrivate in Italia per ricongiungimento familiare, un elemento importante perché, rispetto ad altre donne immigrate, le ricongiunte arrivano come un “bagaglio a mano” nel nostro paese, senza conoscerne la lingua e i costumi; fanno le casalinghe, vivono la loro vita in casa e si affacciano nella società solo quando i loro figli cominciano la scuola.

Nella vostra esperienza, le donne e mamme italiane come vivono queste donne e mamme immigrate e che pregiudizi eventualmente hanno nei loro confronti? E in che cosa consiste, per la vostra esperienza, il conflitto che vivono le immigrate tra la loro cultura di origine, la posizione che hanno in famiglia, da un lato,  e dall’altro la cultura della nostra società? 

Premesso che anche all’interno della nostra scuola non esiste una categoria omogenea di mamme immigrate, perché fra di loro ci sono diversità di provenienza, di classe sociale, di cultura, di religione e quindi risulta impossibile generalizzare, è sicuramente vero che c’è un senso di diffidenza reciproca che rende faticoso instaurare rapporti e relazioni di buon vicinato. Questo è ancora più vero per le donne che hanno una maggior ​visibilità e riconoscibilità nello spazio pubblico come le musulmane​. In generale, esse sono anche le mamme che hanno le famiglie più numerose e questo implica un forte carico domestico che limita notevolmente la loro partecipazione alla vita scolastica e vita sociale dei loro figli. Alle difficoltà che il ruolo di madre impone loro, vanno aggiunte quelle del non parlare bene la lingua italiana, che significa anche non poter aiutare i figli coi compiti a scuola, non poter andare ai colloqui con gli insegnanti, non riuscire a interagire con le altre mamme. Soprattutto, ciò che le segna, è veder crescere la propria prole in un ambiente completamente diverso da quello di provenienza, ambiente che spesso fa paura poiché incomprensibile. E poi c’è la solitudine, quella logorante di donne lontane dalle proprie madri, sorelle, fratelli e amiche. 

In che modo  avete potuto costruire nel tempo un rapporto con le donne immigrate? Cosa fate e cosa progettate di fare nel futuro per favorire i processi di integrazione?

Diversi sono i fattori che influenzano il successo dell’inclusione sociale. Ma la premessa affinché ciò avvenga è creare un’interazione tra la donna immigrata e l’ambiente in cui ella si trova. Se la donna percepirà il nuovo ambiente come il suo ambiente, ne diverrà parte in maniera spontanea. Allo stesso modo, se l’ambiente rileverà il desiderio della donna immigrata di diventare un’utile componente di esso, comincerà a riconoscerla come suo elemento imprescindibile. Per realizzare ciò, il nostro lavoro prevede  interventi multidisciplinari, che partono dall’insegnamento della lingua italiana che però è vista come mezzo per tessere relazioni e non come obiettivo. Per questo le nostre équipe di lavoro vedono collaborare insieme le insegnanti che gestiscono i corsi di italiano L2, modulati sulle esigenze famigliari e i bisogni linguistici delle mamme; le animatrici dello Spazio Bimbi che accoglie i loro figli da 0 a 3 anni; le mediatrici dello sportello di ascolto e orientamento sul territorio e la psicologa che supporta l’impostazione delle attività e interviene nei casi più complessi. 

Ma fra i nostri progetti c’è anche quello di creare occasioni di incontro fra le donne  italiane e straniere. Partendo da ciò che accomuna le madri (il benessere dei figli) e non da ciò che le divide (la provenienza, la cultura…) abbiamo pensato di programmare nella nostra sede una serie di attività di sostegno alla genitorialità, fra queste un laboratorio di letture animate plurilingue. Il laboratorio, gestito da un’educatrice, vedrà la partecipazione delle mamme immigrate che leggeranno nella propria lingua madre. Il coinvolgimento delle mamme lettrici vuole avere una ricaduta sul territorio in termini di visibilità positiva rispetto alle loro competenze, su loro stesse in quanto incide sull’autostima e sul legame sociale in quanto rafforza le relazioni fra le mamme. Come già detto, le donne che sono giunte in Italia per ricongiungimento familiare hanno maggiore difficoltà rispetto alle altre che sono protagoniste della loro migrazione: la mancata scelta in proprio, si accompagna spesso alla mancanza di conoscenza del paese di arrivo, dei suoi costumi, della sua lingua. Ma se hanno la possibilità di superare tutto questo e se non sono costrette a rimanere confinate nell’ambito familiare, magari accettando o accentuando comportamenti familiari tradizionali, tutto questo inciderà anche sul benessere dell’intera famiglia. Che può riguardare una maggiore consapevolezza del proprio ruolo come madre, come donna e come cittadina. 

Teresa Mutalipassi,  che lavora come psicologa presso il settore Servizi Sociali del Comune di Padova descrive un’esperienza realizzata lo scorso anno nell’ambito dei Servizi Comunali  in collaborazione con la Cooperativa Equality, che ha coinvlto 35 donne immigrate con provenienze molte diverse tra loro, mettendo in luce l’interdipendenza tra le difficoltà economiche di molte donne  immigrate e la scarsità non solo di conoscenze ma anche di relazioni , e l’importanza di partire dalle persone, dalle loro storie e culture, favorendo la conoscenza e valorizzazione reciproca.   

“UN PASSO AVANTI” (breve percorso sperimentale verso l’inclusione) 

È ormai dimostrato che la povertà non solo economica, ma anche di conoscenza e relazioni ha un grande impatto sulle donne, in particolare su quelle di origine straniera, mentre al contrario, un maggiore riconoscimento ed un aumento delle loro competenze porta ad un più forte e rapido processo di riduzione della povertà, delle discriminazioni e quindi ad una maggiore possibilità di integrazione sociale. Per lavorare in questa prospettiva bisogna partire dalle persone, dalle loro storie e culture e quindi fare “un passo avanti” che prescinda dal giudizio e dalla valutazione e che inneschi un processo di ascolto e conoscenza reciproca. 

Per questo è necessario costruire spazi e modalità di incontro partendo dalla consapevolezza che gli apprendimenti, assolutamente necessari per potersi integrare in un nuovo contesto sociale e culturale, come la conoscenza della lingua e delle regole di convivenza, la conoscenza del territorio e dei servizi e di aspetti pratici come la gestione economica e la raccolta differenziata,  possono avvenire solamente in un contesto di riconoscimento delle persone, dei loro bisogni e del loro modo di guardare il mondo. E’ nella relazione con l’altro che si può crescere, imparare e soprattutto mettere insieme ciò che si è con ciò che l’altro rappresenta. 

E’ con questa consapevolezza che come operatori del servizio sociale Accoglienza e Immigrazione del Comune di Padova e della Cooperativa Equality, che nel nostro territorio si occupa di accoglienza anche di donne straniere, abbiamo cominciato a pensare insieme a come utilizzare un piccolo fondo regionale che ci era stato assegnato, destinato a progetti di sostegno dell’autonomia delle donne di origine straniera. 

Così è nato il progetto “Un passo avanti”, costruito proprio per promuovere ed implementare i percorsi di inclusione sociale di quelle donne e madri particolarmente fragili, isolate socialmente e/o confinate esclusivamente in un contesto familiare, con limitate opportunità di conoscenza e relazioni. Un percorso laboratoriale di più incontri in/formativi sui temi dell’educazione e della genitorialità, della tutela della salute, dell’orientamento ed accesso ai servizi del territorio, tenendo presente l’obiettivo del miglioramento delle competenze linguistiche e relazionali, trasversale a tutti gli incontri.

Il modulo che abbiamo costruito prevedeva la partecipazione di un gruppo stabile di massimo 15 persone. Sono state coinvolte donne conosciute dai Servizi Sociali, in particolare donne sole con figli o donne in nucleo familiare con la presenza di minori, in condizione di marginalità.

Gli incontri sono stati organizzati attraverso un approccio dialogico, lavorando con il gruppo e attraverso una dimensione laboratoriale che prevedeva anche l’utilizzo di materiali e stimoli concreti (costruzione di maschere, di collage fotografici.. ) per favorire l’espressione e la comunicazione. 

Ad ogni incontro erano presenti una conduttrice con funzione di coordinamento e moderazione ed una psicologa. L’intero percorso si è caratterizzato come uno spazio di incontro e scambio  dove, a partire da uno stimolo, per esempio una parola chiave come “donna”, “genitore”, “coppia” ogni persona poteva raccontare la sua esperienza e la sua modalità di vivere questi aspetti della propria identità. 

Il carattere di spazio che accoglie le diversità si è tradotto anche in momenti di socializzazione informale, come la consuetudine di aprire l’incontro con un momento conviviale in cui bere un tè tutte insieme, o organizzare un’uscita al bar per quattro chiacchiere davanti ad un caffè. Per favorire la partecipazione anche di quelle donne che avevano bambini piccoli è stato garantito contestualmente un servizio di assistenza ed  accudimento dei figli con materiale ludico ricreativo.

Al progetto, che si è concretizzato in tre percorsi in diverse zone della città, hanno partecipato complessivamente 35 donne di provenienze molto diverse: africane dell’area subsahariana, nordafricane, pakistane e bengalesi oltre ad una donna peruviana.

Non è stato facile, anzi è stata un’esperienza molto intensa e impegnativa ma molto partecipata ed apprezzata dalle donne. E anche per gli operatori è stata  di arricchimento non solo professionale ma anche personale. Aprire spazi, dare parola, scambiare esperienze, costringe ad uno sforzo di comprensione reciproca, non solo linguistica, notevole. Tuttavia, il carattere di riconoscimento delle persone, di attribuzione di dignità e valore alle storie, riattiva il bisogno di affermarsi e di ricercare condizioni di vita migliori per se stesse e per i propri figli. 

Fra operatori ci interroghiamo spesso su come favorire l’apprendimento della lingua italiana da parte delle donne straniere; obiettivamente è sempre difficile  imparare una lingua nuova e molte di loro hanno una scolarizzazione molto bassa, ma forse dobbiamo tenere conto di qualcosa di più importante e profondo: si possono imparare cose nuove quando non si è costretti a rinunciare a ciò che si è e si sa, quando quello che sei interessa a qualcuno e quando diventare cittadini di una comunità può significare trasformare la propria diversità in una risorsa per tutti.  

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